giovedì 8 luglio 2010

IL GRATTACIELO NON SI ADDICE A ROMA



di Pietro Samperi



Il concorso di idee bandito dall’INARCH per un progetto di “grattacielo” alto 100 m. (finalmente un riferimento all’altezza di questa tipologia edilizia), presso il Colosseo, può apparire provocatorio, se non un discutibile tentativo di inserirsi, in posizione apparentemente neutrale, nel dibattito in corso sull’opportunità di ammettere questa tipologia edilizia a Roma, al centro o in periferia. Si pubblicizza però il tema, potendo contribuire a dimostrarne l’assurdità.

Il problema non è nuovo, ma quando se ne è parlato, almeno a Roma, è rimasto sempre latente, negli ambienti culturali così come in quelli professionali, imprenditoriali e nell’opinione pubblica; in realtà, non vi è mai stato il coraggio di proporlo in termini operativi, finchè il concorso fra una delle peggiori speculazioni immobiliari di Roma contemporanea, la disponibilità di un noto architetto (o archistar?), la scelta piuttosto silenziosa, operata attraverso il surrettizio strumento dell’accordo di programma, abusato dalle precedenti Giunte comunali di sinistra, ha autorizzato, ai confini dell’EUR, un intervento del quale il dibattito e le conseguenti proteste solo ora scoppiate stanno a dimostrare l’importanza e, a mio avviso, la gravità, anche come precedente.

La tipologia (con il termine skyscraper) nacque intorno alla metà dell’800 nelle nuove grandi città nordamericane (Boston, poi Chicago, New York, ecc.) per motivi prevalentemente speculativi, al fine di densificare gli insediamenti direzionali e commerciali nei centri. Ma più che da motivi specifici, di vario genere, la diffusione della tipologia derivò da un vero e proprio “stile” che riuscì a determinare per le città del nuovo continente, estesosi in Europa, per episodi simbolici piuttosto isolati, solo verso metà del ‘900 e, soprattutto, dopo la seconda guerra mondiale. Peraltro, anche l’episodio isolato richiede non solo grande valore simbolico, ma anche architettonico.
A Roma, il grattacielo entrò solo ai margini del grande dibattito che si svolse negli anni ’20 e ’30 del secolo scorso, non riuscendo neppure a trovare spazio negli interventi di modernizzazione della città, che pur patì episodi traumatici notevoli negli sventramenti in centro storico, come l’Augusteo, via Bissolati, ecc. Infatti, il concetto di salvaguardia, presente nei grandi architetti dell’epoca, a cominciare da Gustavo Giovannoni (uno dei maggiori architetti urbanisti), evitò di far ritenere che, se pur occorreva adeguare il tessuto urbano soprattutto alle nuove esigenze viarie per il trasporto pubblico (difficilmente possibile su linee di metropolitana per i noti motivi archeologici) e il traffico privato, si potesse introdurre una tipologia edilizia capace di stravolgere l’immagine storica che costituiva il genius loci della città. L’invasività visuale del grattacielo ne suggerì l’esclusione anche fuori del centro storico, come dimostrato nell’EUR, dove le altezze superiori a quelle della città consolidata non sono però tali da divenire “margini” visuali urbani.

Come ricorda Ettore Mazzola, fu proprio Giovannoni a scrivere già nel 1927, nel saggio “Intorno agli skyscrapes”: “S’incontreranno vivacemente i due eterni argomenti in discussione sulla nostra Architettura: la necessità da un lato di trovare espressioni adatte ai moderni temi, ai tipi di costruzione, alle esigenze attuali, dall’altro il rispetto al carattere dato dall’ambiente architettonico ed edilizio, pel quale nelle vecchie città il passato diventa energia presente nello stabilire rapporti e forme e misure. E, senza fin d’ora voler concludere con una formula assoluta d’intolleranza, credo che occorrerà pensarci bene prima di ammettere che tra le cupole romane o i palazzi di Firenze o Venezia si allunghi la grande massa invadente degli edifici a 50 piani. [...]

Orbene in questo campo dell’architettura pratica, la prima revisione deve essere quella delle ragioni concrete cui l’opera risponde. E allora che ne risulta? Che tali ragioni rappresentano non un progresso, ma un regresso nella vita civile, un assurdo più ancora che un errore nei riguardi dell’igiene della viabilità cittadina, dell’economia edilizia. Gli skyscrapes rendono infatti pessime le condizioni di illuminazione degli edifici prossimi e di insolazione delle vie; negli ambienti interni, per la serrta utilizzazione dello spazio e l’esclusione dei cortili, rendono nulla la ventilazione naturale; col concentrare forti nuclei di popolazione e di traffico congestionano sempre più il movimento delle strade e nei quartieri; costano infine enormemente, almeno 5 o 6 volte al mc. in più della costruzione ordinaria, [...]. Possono dunque definirsi gli skyscrapes come una interessantissima e ingegnosissima anomalia patologica dell’edilizia moderna, che certo dovrà essere sorpassata e posta tra gli errori inutili quando i mezzi di comunicazione avranno compiuto il loro ciclo di sviluppo e consentiranno un rapido decentramento dei nuclei cittadini verso la campagna. Ce n’è abbastanza, senza entrare nel dibattito tra la meraviglia che destano e la disarmonia che possono creare, per dichiararli ospiti non desiderabili.”
Da qualche anno avevo segnalato sulla stampa la riproposizione del problema, in termini assai pericolosi quanto subdoli. Personalmente l’ho sempre considerato negativamente, senza riserve, finchè, oltre due anni fa, in una circostanziata rassegna delle vicende urbanistiche romane (“Mezzo secolo di urbanistica romana”, ed. Marsilio, 2008) avevo espresso severe critiche al progetto del primo grattacielo a Roma, ai limiti dell’EUR, suscitando le risentite, anche se garbate, reazioni del progettista. Ma, purtroppo, certi fenomeni sensibilizzano quando è tardi per rimediare.

La Giunta comunale solo ora pare accorgersi del problema ed è francamente spiacevole che proprio l’Assessore all’Urbanistica Corsini, replicando a una conferenza stampa di Italia Nostra, abbia affermato che “Per quanto riguarda il tema “grattacieli”, premesso che nessuna seria politica di gestione del territorio deve soffrire immotivati tabù, si tratta soltanto di meditare in modo moderno il problema della necessaria coerenza tra l’esigenza di soddisfare una domanda crescente di alloggi e l’obbligo di non consumare più sconsideratamente il suolo”, ammettendo non solo di concordare con l’introduzione a Roma di questa tipologia edilizia, ma di non aver compreso che il futuro assetto urbanistico di Roma dovrà rispondere alla domanda di alloggi, che riguarda ormai soprattutto l’edilizia popolare o sociale (i cui utenti hanno chiaramente mostrato a Corviale di non gradire le tipologie massificate) con insediamenti non già periferici nell’agro romano contiguo alla città consolidata, ma, come già suggerì Giovannoni, organizzati in nuclei satelliti decentrati nell’area metropolitana e collegati rapidamente alla città.
Il Sindaco Alemanno, che sembra aver avvertito l’importanza e la delicatezza del tema, ha annunciato che esso sarà sottoposto a una consultazione popolare, che non sarà condizionata da pregiudiziali politiche e che dovrà essere preceduta da un’adeguata informazione e preparazione dell’opinione pubblica, compito che impegnerà anzitutto le istituzioni e gli organismi culturali..

Altri ambienti si stanno sensibilizzando al problema, per convinzioni o interessi diversi: a favore dei grattacieli sarà buona parte dell’imprenditoria immobiliare ed edilizia e dei progettisti (soprattutto “archistar”) che aspirano ai relativi ricchi incarichi; contrari gran parte della cultura e i tecnici che non aspirano a quelle progettazioni. I politici, ai quali spettano le scelte operative definitive, dovrebbero essere portatori dei pareri dell’opinione pubblica e tradurli in decisioni, evitando il condizionamento esercitato dai cosiddetti “poteri forti” della finanza, dell’imprenditoria edilizia, nonchè della stampa, strumento di tali poteri. In un problema del genere dovrà però essere determinante il ruolo degli organismi culturali e dell’associazionismo indipendenti dagli interessi in giuoco, grazie alla maggiore sensibilità per i valori e le caratteristiche urbane che fanno di Roma una città unica al mondo, il cui richiamo turistico va considerato prima che un fine, un mezzo per assicurare la salvaguardia attiva di tali valori e delle tradizioni che determinano tale richiamo. Roma non può paragonarsi a una bella e austera signora noventenne che vorrebbe rimanere attraente non per un consono ed elegante abbigliamento, ma per una minigonna, due palmi sopra il ginocchio.

Per concludere, il concorso bandito dall’INARCH, alla luce degli equivoci oggi possibili, dovrebbe dichiarare il suo intento provocatorio, dimostrando esplicitamente quali sarebbero le conseguenze sulla città. Accettare i grattacieli a Roma, anche solo in periferia, significherebbe mortificare e annullare decenni di battaglie culturali per la conservazione dei centri antichi o solo storici, nella loro interezza, compreso il paesaggio circostante. Gli esempi purtroppo non mancano: un grattacielo di 100 m. non moltiplicherebbe per 10 volte l’Ara Pacis alta una decina di metri, ma forse 100 e più volte tanto, data la visibilità assai maggiore che assumerebbe.
Infine, circa l’ammissibilità di grattacieli a Roma, per quanto riguarda altri specifici aspetti negativi di questa tipologia rinvio alle considerazioni di Giovannoni sopra ricordate.

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